Tra tutele e responsabilità clinica l’appropriatezza debutta nei giudizi
Da Il Sole24 ORE Sanità dell’8-3-2016
Alcuni temi affrontati sono i classici della responsabilità medica: responsabilità della struttura, ripartizione dell’onere della prova e consenso informato.
La responsabilità verso il paziente
Quanto alla natura del rapporto tra paziente e struttura ospedaliera, sezione 3, n. 18610/2015, ha riaffermato in via generale che esso ha la sua fonte in un atipico contratto a prestazioni corrispettive con effetti protettivi nei confronti del terzo, da cui, a fronte dell’obbligazione al pagamento del corrispettivo (che ben può essere adempiuta dal paziente, dall’assicuratore, dal servizio sanitario nazionale o da altro ente), insorgono a carico della casa di cura (o dell’ente) accanto a quelli di tipo latu sensu alberghieri, obblighi di messa a disposizione del personale medico ausiliario, del personale paramedico e dell’apprestamento di tutte le attrezzature necessarie anche in vista di eventuali complicazioni o emergenze.
Nello stesso ambito, è stato precisato da sezione 3. n. 21090/2015, che la responsabilità di un nosocomio per contratto cosiddetto di spedalita deriva dall’obbligo di erogare la propria prestazione con massima diligenza e prudenza; essa comprende, oltre all’osservanza delle normative di ogni rango in tema di dotazione e struttura delle organizzazioni di emergenza, la tenuta in concreto, per il tramite dei suoi operatori, di condotte adeguale alle condizioni disperate del paziente, anche in rapporto alle precarie o limitate disponibilità di mezzi o risorse, pur conformi alle dotazioni o alle istruzioni previste dalla normativa vigente, adottando di volta in volta le determinazioni più idonee a scongiurare l’esito infausto.
Nella fattispecie, la Corte di merito, pur rilevando che il paziente fosse giunto nel nosocomio in condizioni disperate, aveva correttamente individuato, quali potenziali cause letali, il ritardo nella comunicazione dei decisivi dati di laboratorio e nell’avvio dell’intervento chirurgico, cosi come «le modalità di manipolazione del già devastato bacino del paziente>>, mentre anche un’eventuale conformità della non adeguata scorta di sangue alle previsioni normative, non avrebbe potuto esentare l’azienda ospedaliera dalla immediata richiesta di altro sangue a strutture più dotate, o dall’immediato trasferimento del paziente in struttura più attrezzata.
La struttura è responsabile anche se il medico è quello fiducia
La Corte ha ribadito la natura contrattuale della responsabilità della casa di cura (o dell’ente) nei confronti del paziente che può conseguire, ai sensi dell’articolo 1218 del codice civile, all’inadempimento della prestazione medico professionale svolta direttamente dal sanitario, quale suo ausiliario necessario pur in assenza di un rapporto di lavoro subordinato, comunque sussistendo un collegamento tra la prestazione da costui effettuata e la sua organizzazione aziendale, non rilevando in contrario la circostanza che il sanitario risulti essere anche di fiducia dello stesso paziente, o comunque dal medesimo scelto.
La transazione tra medico e paziente chiude la causa anche con la struttura
Nella differente ipotesi in cui la domanda risarcitoria abbia a oggetto solo l’operato del medico e non anche i profili strutturali e organizzativi della struttura sanitaria, sezione 3, n. 15860/2O 15, ha ritenuto che la transazione tra medico e danneggiato, con conseguente declaratoria di cessata materia del contendere, impedisce la prosecuzione dell’azione nei confronti della struttura medesima, perché questa ò convenuta in giudizio solo in ragione del rapporto di lavoro subordinato col professionista, e dunque per fatto altrui, sicché la transazione raggiunta tra il medico e il danneggiato, escludendo la possibilità di accertare e dichiarare la colpa del primo, fa venir meno la responsabilità della sturuttura, senza che sia neppure possibile invocare l’articolo 1304 del codice civile.
La struttura è responsabile per le procedure di sicurezza clinica
La sezione 3, n. 24213/2015, ha affermato che in tema di inadempimento di obbligazioni professionali il comma 2 dell’articolo 1176 del Cc, prescrive un criterio più rigoroso di accertamento della colpa e che la nozione del professionista medio secondo la giurisprudenza della Corte sottende un professionista “bravo, serio, preparato, zelante, efficiente». In applicazione di tale principio, la Corte ha confermato la decisione di merito che aveva ritenuto responsabile l’azienda ospedaliera per lesioni derivate da un trapianto di cornee infette fornite dalla “banca degli occhi” gestita dalla stessa struttura ospedaliera.
Quando il paziente transita in strutture diverse la responsabilità non può essere frazionata
Restando in tema, ma sul versarne dell’accertamento dell’efficienza concausale di un fattore naturale, sezione 3, n. 08995/2015, ha ritenuto che, una volta accertato il nesso causale tra l’inadempimento e il danno lamentato, l’incertezza circa l’eventuale efficacia concausale di un fattore naturale non rende ammissibile, sul piano giuridico, l’operatività di un ragionamento probatorio semplificato che conduca a un frazionamento della responsabilità, con conseguente ridimensionamento del quantum risarcitorio secondo criteri equitativi. In applicazione di tale principio, la Corte ha confermato la decisione con cui il giudice di merito, in relazione al danno celebrale patito da un neonato, aveva posto l’obbligo risarcitorio interamente a carico della struttura sanitaria in cui egli era stato ricoverato immediatamente dopo il parto – avvenuto in altra struttura – e presso la quale aveva contratto un’infezione polmonare, e ciò sebbene le risultanze della consulenza tecnica d’ufficio non avessero escluso la possibilità che un con-tributo concausale a un pregiudizio lamentato fosse derivato da una patologia sviluppata in occasione della nascita.
Responsabilità dell’Asl per l’atto del Mmg – danno da vaccinazione
Con riferimento poi al rapporto tra medico generico e Azienda sanitaria locale, sezione 3. n. 06243/2015, ha affermato la responsabilità della Azienda sanitaria locale ex articolo 1228 del Cc in ordine al fatto illecito commesso dal medico generico, con essa convenzionato, nell’esecuzione delle plestazioni curative che siano comprese tra quelle assicurate e garantite dal Servizio sanitario nazionale in base ai livelli stabiliti dalla legge. In tema di ripartizione degli oneri probatori, sezione 3. n. 21 177/2015, ha ribadito che, da un lato, l’attore deve provare l’esistenza del rapporto di cura, il danno e il nesso causale, allegando solo la colpa del medico, dall’altro, questi deve provare che l’eventuale insuccesso dell’intervento, rispetto a quanto concordato o ragionevolmente attendibile, è dipeso da causa a sé non imputabile.
Principio affermato a conferma della impugnata decisione di merito che aveva escluso la responsabilità del medico per una vaccinazione inoculata per via intramuscolo, eseguita nel rispetto dei protocolli per la localizzazione e le modalità operative della iniezione, riconducendo I’evento dannoso al caso fortuito ovvero all’andamento variabile e imprevedibile del nervo circonflesso, come accertato nella consulenza tecnica d’ufficio.
La scelta tra atti terapeutici
Quanto al profilo della colpa in relazione alla possibile scelta che il medico può operare tra diversi tipi di trattamento sanitario, di sic-ro interesse, appare sezione 3. n. 19213/2015, secondo cui, qualora nel corso di un trattamento terapeutico o di un intervento, emerga una situazione la cui evoluzione può comportare rischi per la salute del paziente, il medico, che abbia a disposizione metodi idonei a evitare il verificarsi della situazione pericolosa, è tenuto a impiegarli, essendo suo dovere professionale applicare metodi che salvaguardino la salute del paziente, preferendoli a quelli che possano anche solo esporla a rischio, sicché ove egli privilegi il trattamento più rischioso e la situazione pericolosa si determini, non riuscendo egli a superarla senza danno, la colpa si radica già nella scelta inizialmente compiuta.
In applicazione di tale principio, la Corte ha cassato la sentenza impugnata che aveva ritenuto esente da colpa un medico in relazione alla scelta compiuta di sottoporre unpaziente, affetto da paraparesi spastica, ad intervento di ernia discale per via transarticolare, in luogo del meno rischioso intervento anteriore alla colonna attraverso toracotomia destra, con determinazione della situazione pericolosa connessa al detto rischioso intervento e conseguente necessità di un secondo intervento, attraverso toracotomia, all’esito del quale era residuata una lesione dell’integrità psico-fisica stimata pari al 68 per cento.
La statistica non libera il medico
Rilevante appare, inoltre, sezione 3, n 13328/2015, che ha affermalo come al medico convenuto in un giudizio di responsabilità – per superare la presunzione a suo carico posta dall’articolo 1218 del codice civile – non basti dimostrare che l’evento dannoso per il paziente costituisca una “complicanza”, rilevabile nella statistica sanitaria, dovendosi ritenere tale nozione priva di rilievo sul piano giuridico e soltanto indicativa “nel lessico medico” di un evento, insorto nel corso dell’iter terapeutico, astrattamente prevedibile ma non evitabile, nel cui ambito il peggioramento delle condizioni del paziente può solo ricondursi a un fatto o prevedibile ed evitabile, e dunque ascrivibile a colpa del medico, ovvero non prevedibile o non evitabile, sì da integrare gli estremi della causa non imputabile.
Va parimenti segnalata sezione 3, n. 06438/2015, Petti, Rv. 634965, che ha affermato come il primario ospedaliero, in ferie al momento del contatto sociale, del ricovero e dell’intervento, non possa essere chiamato a rispondere delle lesioni subite da un paziente della struttura ospedaliera solo per il suo ruolo di dirigente, non essendo configurabile una sua responsabilità oggettiva.
Condotta omissiva
Sempre in tema di responsabilità, ma con riguardo alla condotta omissiva del medico, sezione 3, n. 07682/2015, ha confermato la decisione con cui il giudice di merito aveva ravvisato la responsabilità di un aiuto primario di ostetricia che, accertato il grave stato di sofferenza del feto sulla base delle inequivocabili risultanze dell’esame del tracciato cardiotocografico e di quello amnioscopico, a dispetto dell’estrema urgenza dell’intervento, ometteva di procedere – in attesa dell’arrivo del primario – all’esecuzione del parto cesareo, di per sé eseguibile anche da un solo medico con l’ausilio di uno strumentista. In particolare, la Corte ha aggiunto che il contegno tenuto dall’aiuto primario della fattispecie sopra sinteticamente descritta ha violato gli obblighi su di esso gravanti, i quali includono non solo quello di attivarsi secondo le regole dell’arte medica, avuto riguardo al suo standard professionale di specialista, ma anche di salvaguardare, ai sensi dell’articolo 1375 del codice civile, la vita del paziente.
L’accertamento del nesso causale
Quanto al criterio di accertamento del nesso causale, sezione 3, n. 03390/2015, ha ribadito l’ utilizzo del criterio della preponderanza dell’evidenza (altrimenti definita anche del più probabile che non), già più volte utilizzato dalla Corte (tra le decisioni più recenti: sezione 3. a. 22225/2014, Rv. 632945), criterio che implica una valutazione della idoneità della condotta del sanitario a cagionare il danno lamentato dal paziente che deve essere correlata alle condizioni del medesimo, nella loro irripetibile singolarità.
Nella fattispecie in esame, la Corte ha ritenuto immune da vizi logici la decisione con cui il giudice di merito aveva affermato la responsabilità di una struttura sanitaria, in relazione alla paralisi degli arti inferiori subita da un paziente sottoposto a un intervento di trombectomia, per essere stato omesso un trattamento preventivo a base di eparina, sebbene lo stesso non fosse previsto da alcun protocollo, ma solo raccomandato in via precauzionale nella letteratura scientifica perché in astratto idoneo a prevenire tale complicanza, attesa l’oggettiva gravità del rischio, sul piano causale, a carico del paziente per le sue particolari condizioni personali, trattandosi di soggetto fumatore, affetto da diabete e, verosimilmente, da vascolopatia.
La cartella clinica non completa inchioda il medico
La sezione 3. n. 12218/2015, ha ritenuto che l’eventuale incompletezza della cartella clinica costituisca una circostanza di fatto che il giudice può utilizzare per ritenere dimostrata l’esistenza di un valido legame causale tra l’operato del medico e il danno patito dal paziente soltanto quando proprio tale incompletezza abbia reso impossibile l’accertamento del relativo nesso eziologico e il professionista abbia comunque posto in essere una condotta astrattamente idonea a provocare la lesione. Nel caso risulti accertata una condotta che depone per la responsabilità del medico operante e conseguentemente, della struttura sanitaria, secondo sezione 3, n. 08989/2015, spetta all’uno e all’altra, in applicazione del principio della vicinanza della prova (o di riferibilità), provare che il risultato “anomalo” o “anormale”, rispetto al convenuto esito dell’intervento, sia dipeso da un evento imprevedibile, non superabile con l’adeguata diligenza.
Danno da consenso informato
Con riferimento al danno cagionato dalla mancata acquisizione del consenso informato del paziente in ordine all’esecuzione di un intervento chirurgico, sezione 3. n. 12205/2015, ha affermato che esso è risarcibile, ancorché apparisse, ex ante, necessaro sul piano terapeutico e sia pure risultato, ex post, integralmente risolutivo della patologia lamentata, integrando comunque tale omissione dell’informazione una privazione della libertà di autodeterminazione del paziente circa la sua persona, in quanto preclusiva della possibilità di esercitare tutte le opzioni relative all’espletamento dell’atto medico e di beneficiare della conseguente diminuzione della sofferenza psichica, senza che detti pregiudizi vengano in alcun modo compensati dall’esito favorevole dell’intervento.
Il danno da mancato consenso e da malpractice non coincidono
Nello stesso ambito, va segnalata sezione 3, n. 02854/2015, che ha ritenuto come l’acquisizione del consenso informato del paziente, da parte del sanitario, costituisca prestazione altra e diversa rispetto a quella avente a oggetto l’intervento terapeutico, di talché l’errata esecuzione di quest’ultimo dà luogo a un danno suscettibile di ulteriore e autonomo risarcimento rispetto a quello dovuto per la violazione dell’obbligo di informazione, anche in ragione della diversità dei diritti – rispettivamente, all’autodeterminazione delle scelte terapeutiche e all’integrità psicofisica – pregiudicati nelle due differenti ipotesi. In forza di tale principio la Suprema corte ha cassato la decisione con cui il giudice di merito aveva ritenuto assorbito, nel risarcimento del danno da mancata acquisizione del consenso informato, anche il pregiudizio cagionato da un medico ortopedico per avere imprudentemente sottoposto a intervento di artroscopia un paziente affetto da gotta, esponendolo al rischio – poi effettivamente concretizzatosi – di riacutizzazione flogistica.
Il consenso informato non deve essere “fugace” e “improprio”
Meritevole di menzione anche sezione 3, n. 19212/2015, secondo cui il medico viene meno all’obbligo di fornire idonea ed esaustiva informazione al paziente, al fine di acquisirne un valido consenso, non solo quando omette del tutto di riferirgli della natura della cura prospettata, dei relativi rischi e delle possibilità di successo, ma anche quando ne acquisisca con modalità improprie il consenso, sicché non può ritenersi validamente prestato il consenso espresso oralmente dal paziente. Nel caso di specie, la Corte ha negato che – in relazione a un intervento chirurgico effettuato sulla gamba destra di un paziente, privo di conoscenza della lingua italiana e sotto narcosi – potesse considerarsi valida modalità di acquisizione del consenso informato all’esecuzione di un intervento anche sulla gamba sinistra, l’assenso prestato dall’interessato verbalmente nel corso del trattamento.
Il paziente che chiede i danni li deve dettagliare
Tra le pronunzie di natura eminentemente processuale, da un lato, sezione 3 n. 13328/2015 che ha precisato come nei giudizi risarcitori la domanda debba descrivere in modo concreto i pregiudizi dei quali si chiede il ristoro, senza limitarsi a formule generiche, come la richiesta di risarcimento dei danni subiti e subendi, perché tali domande, quando non nulle ex articolo 164 del codice di procedura civile, non obbligano il giudice a provvedere sul risarcimento di danni che siano concretamente descritti solo in corso di causa.
A cura di Paola Ferrari
Avvocato