Rassegna stampa

ASCO: Rassegna stampa

 

Sempre più efficaci (e cari) i farmaci contro i tumori

Nuovi farmaci anticancro. Ma il problema è il costo

Da CORRIERE DELLA SERA del 4-6-2017

I trattamenti antcancro sono sempre più mirati ed efficaci. Ma il loro costo è diventato un grande problema. In Paesi come gli Usa c’è chi va in bancarotta per curarsi, in altri, come l’Italia, si cercano strategie per garantire l’accesso alle terapie, anche più innovative, attraverso il Servizio sanitario nazionale.

La sperimentazione sulle molecole contro i tumori è attiva e vivace, tuttavia fra l’approvazione di un nuovo medicinale e la sua reale disponibilità passa molto tempo. Con differenze anche fra e diverse Regioni italiane. Un’attesa legata soprattutto a ragioni economiche

Apprendiamo, quasi quotidianamente, dai media, giornali di carta o online, oppure dalla televisione o da qualsiasi altra fonte di informazione, compresi i social media, che un nuovo farmaco “X” funziona nell’aumentare la sopravvivenza dei pazienti con un qualche tipo di tumore. Chi lo dice? Lo dicono gli studi pubblicati sulle riviste scientifiche e lo testimoniano gli esperti che periodicamente ne discutono a congressi internazionali come dell’American Society of Clinical Oncology (Asco) in corso a Chicago, che ogni anno riunisce oltre trentamila specialisti ed è il più importante al mondo. I farmaci antitumorali innovativi, stornati dalla ricerca, aumentano di giorno in giorno: dal 2013 al 2016 l’Ema, l’Agenzia Europea del Farmaco, che ha il compito di autorizzarne l’immissione in commercio, ne ha licenziati 45.

Le cure ci sono, nuove ed efficaci, ma il problema è un altro: quanto tempo deve aspettare un paziente italiano (ci soffermiamo sulla nostra realtà, perché in Europa esistono molte disparità nell’accesso alle cure) per poter essere effettivamente trattato con un nuovo farmaco?

Tanto, forse troppo, dice l’ultimo rapporto Favo, la Federazione italiana delle Associazioni di Volontariato in Oncologia, presieduta dall’ex Ministro della Sanità Francesco De Lorenzo, che ha fatto i conti. Eccoli, con una premessa: il primo passo per la registrazione di un farmaco lo fa l’Ema (negli Stati Uniti è l’Fda, la Food and Drug Administration). Poi tutto passa alle autorità nazionali, in Italia è l’Aifa, l’Agenzia del farmaco, che recepisce le decisioni dell’Ema e, in più, concorda il prezzo con le aziende produttrici. Poi sono le Regioni che decidono come e quando offrire la nuova cura al paziente e qui le cose si complicano. Secondo il rapporto Favo, in alcune Regioni, i tempi di attesa possono arrivare fino a tre anni. Le peggiori? Sarebbero Molise e Valle d’Aosta. Le più virtuose, la Lombardia e la Puglia.

Mediamente, da quando un farmaco è autorizzato dall’Ema fino alla sua disponibilità per il paziente italiano, passano 806 giorni, più o meno due anni.

Commenta De Lorenzo. «Nell’attesa del medicinale giusto si può morire: occorre velocizzare i tempi».

«Le cose, però, stanno migliorando», aggiunge Carmine Pinto, Presidente dell’Associazione Italiana di Oncologia Medica (Aiom) e oncologo a Reggio Emilia. «L’Aifa sta velocizzando i tempi di approvazione. L’ultimo esempio è il pembrolizumab, un farmaco indicato per la cura del tumore polmonare avanzato non a piccole cellule, che ha avuto un iter molto rapido».

C’è chi sospetta che i ritardi nel mettere a disposizione i farmaci innovativi e più costosi sia una sorta di “razionamento”, un modo per ridurre la spesa per trattare queste malattie, in crescita costante e chi, invece, ricorda che, almeno per il 2017, il Governo italiano ha stanziato un fondo di 500 milioni di euro per le nuove cure oncologiche. E che i pazienti non avranno problemi ad accedervi.

«I farmaci sono costosi —ammette Pinto —. Ma la spesa per l’oncologia non è fatta soltanto di farmaci. Se si vuole risparmiare occorre verificare quali e quanti esami diagnostici sono davvero utili nella gestione del paziente e quali e quanti interventi di chirurgia lo sono. Ragionare sui farmaci è la cosa più semplice, il problema è il resto».

In Italia al momento (pur con i ritardi segnalati) un paziente può essere curato gratuitamente grazie al nostro sistema sanitario nazionale. E la mortalità per tumore si è ridotta negli ultimi tempi.

Quella “tossicità finanziaria” del cancro, di cui si parla da tempo negli Stati Uniti e che è al centro delle relazioni all’Asco di Chicago anche quest’anno, per noi al momento non c’è. O forse sì.

Tossicità finanziaria significa che un paziente, soprattutto negli Usa, quando si ammala, rischia la bancarotta. In America, i cittadini devono stipulare assicurazioni per l’assistenza sanitaria, ma spesso devono contribuire alle spese di tasca propria e finiscono per vendersi la casa o rinunciare all’educazione dei figli. E le statistiche dicono che chi si trova in queste situazioni ha un rischio di morte dell’ 80 per cento più alto.

In Italia i farmaci non si pagano, ma esiste comunque una “tossicità economica” della malattia, come ha dimostrato una ricerca, firmata da Francesco Perrone dell’Istituto Nazionale dei Tumori di Napoli, Fondazione Pascale, e condotta su 3.670 pazienti.

Se una persona, infatti, ha già problemi finanziari al momento della diagnosi di malattia avrà un rischio di morte più elevato del 20 per cento. Deve affrontare nuove spese, per recarsi nei centri di cura, ad esempio, o per il pagamento di ticket, e, in più, può andare incontro a problemi sul posto di lavoro. Questioni di cui non si parla abbastanza. E che possono ridurre i benefici dei nuovi farmaci.

Di Adriana Bazzi


La parola guarigione non è più un tabù

La svolta

Da CORRIERE DELLA SERA del 4-6-2017

Male “incurabile”, addio. Sebbene alcuni tumori restino difficili da sconfiggere, secondo le più recenti statistiche, le guarigioni sono in aumento e sei italiani su dieci ce la faranno, andando a ingrossare le fila di quei tre milioni di connazionali che sono vivi dopo una diagnosi di cancro.

«Un terzo di loro può e deve essere considerato guarito —sottolinea Stefania Gori, presidente eletto dell’Associazione Italiana di Oncologia Medica (Aiom) —. Vediamo finalmente i risultati di diagnosi precoci e nuove terapie efficaci: circa un milione di persone nel nostro Paese si sono lasciate alle spalle la malattia e oggi hanno la stessa aspettativa di vita di coetanei che non hanno mai avuto un tumore. Non devono più fare controlli, con un risvolto psicologico importante: hanno il pieno diritto, anche a livello sociale (ad esempio sul lavoro, oppure quando devono stipulare mutui e assicurazioni) di sentirsi uguali a chi di cancro non si è mai ammalato».

Il tema è di grande attualità al congresso annuale dell’Asco, la Società Americana di Oncologia, in corso a Chicago, dove si fanno i conti con l’esercito crescente di cancer survivors (sopravvissuti al cancro) e con le loro nuove necessità.

«Le “cure ai sopravvissuti” sono di fatto una nuova branca dell’oncologia — sottolinea Paolo Tralongo, autore di una relazione sulla rivista Asco insieme ad Antonella Surbone, docente alla New York University Medical School —, ma sarebbe utile avviare una “categorizzazione” di questi pazienti, considerato che ognuno si trova in una condizione peculiare, che a sua volta proietta necessità e aspettative diverse. Infatti, nella generica definizione di survivors convivono almeno quattro realtà diverse: pazienti acuti, cronici, a lungo termine e guariti».

Secondo le più recenti stime contenute nel volume “I numeri del cancro in Italia 2016” (che fotografa la realtà nostrana grazie al lavoro di AIOM e Associazione Italiana Registri Tumori-AIRTUM), il numero dei connazionali vivi dopo una diagnosi di tumore cresce di circa il 3 per cento l’anno: si stima che il 5 per cento dell’intera popolazione (un cittadino su 20) siano guariti o convivano in modo cronico con un tumore.

«La parola guarigione non è più un tabù per chi ha avuto un tumore — aggiunge Tralongo, che è direttore dell’oncologia di Siracusa —. E ormai tempo che questa parola venga utilizzata, che il concetto sia sdoganato, perché i numeri e le statistiche lo dicono: guarire dal cancro è possibile. Tutto dipende dal tipo di neoplasia, dallo stadio alla diagnosi, dalle cure ricevute. E naturalmente dal tempo trascorso dalla scoperta della malattia». Ancora troppo spesso, però, familiari e medici sono riluttanti a parlare di guarigione, con conseguenze negative sia per gli ex malati che finiscono per sentirsi sempre inutilmente preoccupati, sia per il Servizio sanitario, che spreca denaro (potenzialmente investibile in modo più appropriato) per visite e controlli che potrebbero non essere più necessari.

«Esistono precisi modelli “matematici” — precisa Stefania Gori — che valutando tutti i parametri necessari indicano quando una persona può essere giudicata guarita. Un’informazione preziosa, per gli interessati che riprendono pienamente in mano la loro vita e per la programmazione sanitaria». Studi condotti su numeri molto grandi di pazienti, ad esempio, hanno dimostrato che le persone curate efficacemente per un tumore al colon o alla cervice uterina possono essere definite guarite dopo 8 anni di controlli in cui non si è avuta alcuna ripresa della malattia, mentre può bastare anche solo 1 anno per giovani operati di carcinoma a tiroide o testicoli.

Di Vera Martinella


Ricerca. I nostri studiosi hanno un ruolo di primo piano

Da CORRIERE DELLA SERA del 4-6-2017

Sono circa 30mila gli oncologi provenienti da tutto il mondo che partecipano al congresso annuale della Società Americana di Oncologia (Asco) e quasi 2.500 gli studi che vengono presentati e discussi a Chicago, dove si parla del futuro della ricerca, di terapie in sperimentazione, di farmaci innovativi. Quest’anno l’oncologia italiana avrà un ruolo di primo piano — dice Carmine Pinto, presidente dell’Associazione Italiana di Oncologia Medica —: presenterà, infatti, in sessioni congressuali di particolare rilievo cinque studi indipendenti che puntano a migliorare sia la cura che la qualità di vita dei pazienti e a contenere i costi per il Servizio sanitario nazionale. Ricerche che hanno l’obiettivo di rispondere a domande come selezionare la migliore terapia per ogni malato fra le molte oggi disponibili, o se sia possibile ridurre la durata di un trattamento conservandone l’efficacia».

V.M.


La riflessione. La ricerca pubblica può fare molto

Da CORRIERE DELLA SERA del 4-6-2017

Il costo sempre maggiore dei farmaci è ormai diventato il principale argomento di discussione in quasi tutti i congressi medici. A maggior ragione lo è quando le terapie in questione sono quelle che servono a curare i tumori, come descritto nelle pagine che seguono sull’Asco (American Society Clinical Oncology) in corso a Chicago, il più importante appuntamento annuale sulle novità in oncologia. Le ricette invocate e le strategie messe a punto per fronteggiare questo fenomeno e garantire sia la sostenibilità della spesa sanitaria sia l’accesso alle nuove cure a chi ne ha bisogno sono molte e diverse. Nel nostro Paese l’Aifa (Agenzia Italiana del Farmaco) si è dimostrata fra le più attive e avanzate del mondo in questo senso, adottando, per esempio, sistemi di rimborso dei medicinali alle case farmaceutiche in base ai risultati ottenuti sui singoli pazienti. Altri provvedimenti sono stati adottati, in Italia e all’estero, con maggiore o minore successo.

Un aspetto di cui poco si parla in genere, è però quello del ruolo che può giocare per il contenimento dei costi la ricerca clinica «pubblica», indipendente. La maggioranza delle sperimentazioni cliniche (cioè delle “prove” che vengono condotte per testare la sicurezza e l’efficacia delle medicine) è condotta con il finanziamento delle industrie che intendono verificare i farmaci di propria prduzione. E’ naturale che sia così e ciò non significa che queste ricerche non siano attendibili. Ma una ricerca totalmente svincolata dal sostegno dell’industria può «cercare» cose diverse. Ed è quanto viene indicato in questi giorni proprio da diversi studi indipendenti presentati all’Asco, che vedono coinvolti ricercatori italiani sostenuti.

Queste ricerche dimostrano, per esempio, che per alcuni tumori, in casi selezionati, la durata o il dosaggio della chemioterapia possono essere ridotti rispetto ai trattamenti considerati standard senza che la cura risulti meno efficace, ottenendo così un consistente abbattimento dei costi e un miglioramento della qualità di vita dei pazienti.

Altro fronte su cui la ricerca pubblica può impegnarsi molto utilmente è poi quello della comparazione fra farmaci e fra combinazioni di farmaci.

È vero che i soldi per finanziare sperimentazioni indipendenti sono difficili da trovare, però una valutazione accurata del costo-beneficio di questo tipo di investimento potrebbe forse dare risultati sorprendenti in termini di bilancio sul medio-lungo periodo.

Di Luigi Ripamonti


Allarme per l’aumento delle spese oncologiche

Da L’OSSERVATORE ROMANO del 4-6-2017

ROMA, 3. In Italia un paziente oncologico su cinque rischia il default, cioè il tracollo economico: per la prima volta si comincia infatti a parlare di “tossicità finanziaria”, ovvero la crisi economica individuale conseguente al cancro e alle sue cure, e quindi anche alla precarietà o perdita del lavoro che in vari casi segue alla malattia. A lanciare l’allarme è l’associazione italiana di oncologia medica (Aiom) in occasione del congresso dell’American Society of Clinical Oncology (Asco), che si è aperto ieri a Chicago con la partecipazione di oltre trentamila oncologi da tutto il mondo.

L’attenzione dei clinici, non solo italiani ma a livello mondiale, è dunque focalizzata sul tema della sostenibilità: da un lato, infatti, oggi le terapie innovative permettono di migliorare la sopravvivenza dei pazienti, di cronicizzare o, in alcuni casi, di sconfiggere la malattia. Dall’altro, però, pongono i servizi sanitari nazionali di fronte alla sfida della copertura economica necessaria. I trattamenti si sviluppano, ma i costi aumentano. Un dato su tutti: oltre 20 tipi di tumori sono stati trattati con uno o più dei 70 nuovi trattamenti lanciati negli ultimi sei anni, portando la spesa mondiale per il cancro a 107 miliardi di dollari nel 2015. Ed è previsto un aumento fino a 150 miliardi di dollari nel 2020. Fino a pochi anni fa, sottolinea il presidente dell’Aiom, Carmine Pinto, «era un problema confinato agli Stati Uniti, oggi interessa anche il nostro paese», con conseguenze ancora tutte da scoprire.


Oggi la scelta è fra chemioterapia, farmaci «mirati» e immunoterapia

Da CORRIERE DELLA SERA del 4-6-2017

Chemioterapia contro terapie “personalizzate”, contro immunoterapia (tralasciando al momento la terapia ormonale, indicata in tumori come quello delle prostata o del seno che sono sensibili agli ormoni). Quale cura, oggi, risponde meglio al bisogno di essere curato di un paziente affetto da cancro?

Facendo cento il numero di malati nelle varie fasi della malattia, in quale percentuale questi trattamenti farmacologici possono garantire una guarigione (se per guarigione si intende il fatto di avere le stesse aspettative di vita di chi quel tumore non ce l’ha)?

La chemioterapia si basa sulla somministrazione di composti capaci di interferire con la moltiplicazione delle cellule tumorali, ma lo fa anche con le cellule sane. «Paradossalmente — commenta Pier Franco Conte, professore di Oncologia all’Università di Padova e direttore dell’Oncologia medica all’Istituto Oncologico Veneto, considerando i dati degli studi presentati quest’anno all’Asco, il congresso annuale dell’American Society of Clinical Oncology in corso a Chicago — la chemioterapia, fra le tre modalità farmacologiche di cura, è la più “naturale”. Si basa, infatti, su composti presenti in certi microrganismi o nelle piante, nelle loro foglie o nella corteccia, che poi vengono sintetizzati chimicamente».

Ancora oggi la chemioterapia ha un ruolo importante in terapia e, pur con i suoi effetti collaterali, guarisce circa il 30 per cento dei tumori mammari, il 20 per cento di quelli del colon retto, il 10-20 per cento di quelli dell’ovaio e l’80 per cento dei linfomi, tanto per fare qualche esempio.

Non è stata, dunque, scalzata dai più moderni farmaci a bersaglio molecolare (quelli alla base della cosiddetta “medicina di precisione” o “terapia personalizzata” che sfrutta molecole capaci di neutralizzare i difetti genetici responsabili del tumore).

«Le terapie personalizzate hanno molti limiti — spiega Conte —. Primo il fatto che sono pochissimi i tumori che hanno una sola alterazione genetica (come, per esempio, certe forme di leucemia e certi tumori dell’intestino chiamati Gist, che rispondono molto bene all’imatinib, ndr). Gli altri ne hanno molte e i farmaci spesso funzionano, ma con benefici transitori: il tumore si adatta e il suo Dna produce nuove mutazioni. Soltanto nel 10-20 per cento dei casi si ottengono risultati molto significativi in termini di sopravvivenza».

Ecco allora l’idea di proporre test genetici per identificare le alterazioni del Dna in modo da somministrare questi farmaci in maniera più mirata, magari in associazione o in sequenza (ma senza studiarli in sperimentazioni cliniche: basta avere la mutazione e si darebbero “off label”, cioè al di fuori delle indicazioni per cui hanno ottenuto ufficialmente la registrazione).

Ma l’ultimo “grido”, in fatto di terapia antitumorale, sono gli immunoterapici, farmaci che, invece di agire sul tumore, stimolano il sistema di difesa immunitario dell’organismo a ribellarsi contro quest’ultimo. In certe neoplasie, a partire dal melanoma, dal carcinoma del rene fino a quelli di testa- collo e adesso del polmone cosiddetto non a piccole cellule i successi sono certificati e in aumento: guarigioni che arrivano fino al 40 per cento (nel melanoma) al 20 per cento (in certi tumori polmonari) al 10-20 per cento nei tumori dell’apparato urinario.

«Se si fa una media, a oggi, non più del 25-30 per cento di tutti i tumori rispondono all’immunoterapia — continua Conte —. Molti sono “freddi”: anche se si riattiva il sistema immunitario, questo non è in grado di agire sulle cellule tumorali. E non manca, per questi farmaci, un certo grado di tossicità».

A.Bz.