Solo 7 casi su 100 diagnosticati nella fase iniziale
Da NAZIONE-Carlino-GIORNO del 19-11-2017
Il tumore del pancreas è un nemico silenzioso. La patologia in fase precoce non presenta sintomi specifici e questo rende la diagnosi difficile e fa sì che la malattia venga scoperta nella maggior parte dei casi in uno stadio già avanzato. Come se non bastasse, le caratteristiche intrinseche della malattia compromettono l’efficacia di molti trattamenti. La difficoltà nel trattare il tumore, infatti, è dovuta alla presenza di un tessuto fibroso che, racchiudendo le cellule tumorali, le rende particolarmente resistenti ai farmaci. Come possiamo, allora, abbassare il rischio di cancro del pancreas? Come accade per la maggior parte dei tumori, con la prevenzione primaria. Secondo l’Aiom (Associazione italiana di oncologia medica), «la corretta assunzione di alimenti, in pratica la dieta mediterranea, associata a uno stile di vita attivo, costituisce la base della prevenzione oncologica». «In Italia — spiega Fabrizio Nicolis, presidente Fondazione AIOM — negli ultimi 15 anni i casi di tumore del pancreas sono aumentati del 59% (erano 8.602 nel 2002, oggi sono 13.700). Fumo, obesità, età e sedentarietà rappresentano i principali fattori di rischio». «A oggi — afferma Giampaolo Tortora, direttore Oncologia Medica A.O. Universitaria di Verona — non ci sono metodi per la diagnosi precoce. Solo il 7% dei casi infatti è individuato in stadio iniziale. Spesso sintomi come il calo di peso, mal di schiena, dolore allo stomaco e cattiva digestione vengono confusi con quelli di altre patologie. Tutto ciò ritarda la diagnosi e l’intervento». All’orizzonte, la personalizzazione dei trattamenti. Alcuni nuovi chemioterapici impiegano le nanotecnologie per un controllo della malattia metastatica. In particolare un farmaco legato in nanoparticelle all’albumina sta dando risultati positivi con profilo di tossicità favorevole.
I trattamenti del tumore del pancreas possono essere chirurgici, chemioterapici e radioterapici con possibili combinazioni messe a punto caso per caso. La scelta delle modalità di trattamento dipende dal tipo istologico e dallo stadio del tumore, oltre che dall’età e dalle condizioni generali del paziente. Nei casi operabili, la chirurgia è la terapia d’elezione.
«Ma non è accettabile — afferma Massimo Falconi, direttore del Centro del Pancreas dell’IRCCS Ospedale San Raffaele e docente ordinario all’università Vita-Salute di Milano — che alcuni pazienti siano operati in centri che svolgono uno o due interventi l’anno. La chirurgia pancreatica è estremamente complessa. Ci vuole competenza e buona esperienza».
Professore, i pazienti sono tutti operabili?
«No. Meno del 20% dei pazienti è, purtroppo, candidabile a un intervento con intento curativo, con una sopravvivenza a 5 anni intorno al 20-30%. E numerosi studi scientifici hanno dimostrato che i rischi di gravi complicanze sono più alti nei centri che eseguono raramente questo tipo di operazioni».
Ci può dare cifre?
«Un’analisi dei dati raccolti dal ministero della Salute mostra che nel nostro Paese, in un ospedale con poca esperienza in chirurgia pancreatica, il paziente ha un rischio di morire 5 volte maggiore rispetto ai centri con più esperienza. Nel dettaglio, la mortalità è stata del 12,4% negli ospedali che eseguono 1-5 interventi all’anno, del 7,8% in quelli che ne svolgono 6-13, del 5,9% in quelli che ne eseguono 14-51, e solo del 2,6% nei due centri con maggiore esperienza (Ospedale San Raffaele di Milano e Policlinico G.B. Rossi di Verona) che effettuano, a testa, più di 300 resezioni pancreatiche all’anno».
Ma allora cosa fare?
«Dovrebbero essere individuate strutture di riferimento certificate sulla base di chiari parametri: quantità, qualità, valutazione puntuale dei risultati clinici. La decisione di procedere all’intervento chirurgico non può essere, poi, affidata al solo chirurgo, ma deve essere condivisa dall’interno di un team multidisciplinare: radiologo, endoscopista-gastroenterologo, patologo, oncologo/radioterapista».
Trapianto di pancreas. È opportuno nei casi di tumore?
«Non è un’opzione in questa malattia. Il trapianto allogenico (da altro individuo) richiede inflitti una terapia immunosoppressiva che è assolutamente controindicata per una malattia già di per sé così aggressiva. Può essere, invece, un’opzione la possibilità di un autotrapianto di insule pancreatiche, qualora si sia costretti ad asportare l’intero pancreas, ma una parte di esso sia libero da malattia. È una procedura estremamente complessa che viene eseguita qui in San Raffaele. Lo scopo è di evitare il diabete postoperatorio, che rappresenta la regola se si asporta l’intero pancreas».
In ambito chirurgico, la ricerca sta aprendo nuovi orizzonti?
«Direi che sono due i grandi ambiti della ricerca in chirurgia. Da un lato si sta cercando di passare a tecniche mininvasive per ridurre l’impatto sull’organismo. Il secondo aspetto riguarda invece la nostra capacità di selezionare i candidati alla chirurgia secondo parametri biologici legati alla malattia. In altre parole la scelta di procedere o meno a un intervento così complesso deve essere modulata sulla base di parametri che ci diano la misura dell’aggressività della malattia stessa. Alcuni parametri sono già noti, altri meno. Nei centri di riferimento la ricerca sta guardando con speranza al campionamento preoperatorio della malattia e alla biologia molecolare quali possibili mezzi per ottenere queste risposte».
Un consiglio per tutti?
«Innanzitutto seguire corretti stili di vita. Nel contempo, la gente non si deve allarmare inutilmente per sintomatologie che devono essere riconosciute unicamente dai medici competenti. Una sola eccezione va fatta per i casi di familiarità: se in una famiglia ci sono stati due o più casi di cancro del pancreas o se un parente si è ammalato prima dei 50 anni, i familiari potrebbero usufruire di uno screening genetico e trarre giovamento da un eventuale programma di prevenzione il cui valore è, comunque, ancora oggetto di indagine».
Di Maurizio Maria Fossati