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Long-Term Outcomes and Genetic Predictors of Response to Metastasis-Directed Therapy Versus Observation in Oligometastatic Prostate Cancer: Analysis of STOMP and ORIOLE Trials

L’impiego della radioterapia mirata sulle metastasi (MDT) è sempre più diffuso nel contesto del carcinoma prostatico oligometastatico sensibile alla castrazione (omCSPC). Gli studi STOMP e ORIOLE sono gli unici due studi prospettici che hanno valutato in questo setting il ruolo della radioterapia stereotassica sulle metastasi, confrontandola con l’osservazione. Questi studi hanno dimostrato che la MDT prolunga il tempo all’avvio della terapia androgeno-deprivativa e la sopravvivenza libera da progressione (PFS). Sebbene la MDT si sia dimostrata efficace, pochi sono i dati sull’utilità dei biomarcatori nel definire il miglior trattamento in questo gruppo di pazienti.
In questo studio, vengono presentati i risultati a lungo termine del trattamento delle metastasi nel setting di malattia omCSPC, in un’analisi combinata degli studi STOMP e ORIOLE; inoltre, viene valutata la possibilità di individuare un profilo mutazionale dei pazienti ad alto rischio al termine della MDT. L’endpoint primario è la sopravvivenza libera da progressione (PFS). Le mutazioni ad alto rischio selezionate sono le mutazioni somatiche patogenetiche in ATM, BRCA1/2, Rb1 o TP53.
Il follow-up mediano per l’intero gruppo è stato di 52.5 mesi (range 5.8-92.0 mesi). In totale sono stati inclusi nell’analisi 116 pazienti (62 nello studio STOMP e 54 nell’ORIOLE), con caratteristiche di base ben bilanciate tra i due gruppi di trattamento. In entrambi gli studi, la radioterapia sulle metastasi ha prolungato significativamente la PFS: la PFS mediana dell’intera coorte è stata di 11.9 mesi (95% CI, 8.0-18.3) nel braccio di trattamento con MDT rispetto a 5.9 mesi (95% CI, 3.2-7.1) nel braccio di controllo, con un HR di 0.44 (95% CI, 0.29-0.66; P value <.001). La sopravvivenza libera da progressione radiologica (rPFS), il tempo alla progressione alla resistenza alla castrazione e la sopravvivenza globale non differivano nei due gruppi di trattamento.
Un totale di 103 pazienti (89%) aveva tessuto disponibile per il sequenziamento e, di questi, 70 campioni (60%) sono stati sottoposti a NGS. Le caratteristiche cliniche di questi 70 pazienti sono sovrapponibili a quelle dell’intera coorte. La PFS mediana dei pazienti non ad alto rischio è risultata di 11.9 mesi (95% CI, 7.0 – 16.3) rispetto a 5.9 mesi (95% CI, 5.8 – 11.1) dei pazienti con una mutazione ad alto rischio (HR 0.57; 95% CI, 0.32 – 1.03; P value .06). Anche la rPFS è risultata migliore nei pazienti senza mutazioni ad alto rischio (22.6 versus 10.0 mesi, HR 0.38; 95% CI, 0.20-0.17; P value <.01). Sono stati quindi stratificati i pazienti per braccio di trattamento e sulla base dello stato mutazionale: sia i pazienti con mutazioni ad alto rischio che quelli senza, hanno beneficiato dalla radioterapia stereotassica delle metastasi; tuttavia, è stata evidenziata una potenziale maggiore entità del beneficio nei pazienti con mutazione ad alto rischio. Infatti, la PFS mediana dei pazienti ad alto rischio trattati con MDT è stata di 7.5 mesi (95% CI, 5.9 – NR) rispetto a 2.8 mesi (95% CI, 2 – NR) nel braccio di controllo (HR 0.05; 95% CI, 0.01 – 0.28; P value <.01); nei pazienti non ad alto rischio, invece, la PFS mediana nel braccio di trattamento radioterapico è stata di 13.4 mesi (95% CI, 7.0 – 36) rispetto a 7.0 mesi (95% CI, 4.0 – 15.4) nel braccio di controllo (HR 0.42; 95% CI, 0.23 a 0.77; P value .01). Non sono state osservate differenze in termini di rPFS.
Pertanto, i risultati a lungo termine degli studi STOMP e ORIOLE dimostrano un beneficio clinico duraturo della MDT rispetto all’osservazione. Sebbene sia necessario un follow-up più esteso, gli incoraggianti risultati suggeriscono che, in pazienti selezionati, la sola radioterapia stereotassica sulle metastasi potrebbe essere una ragionevole opzione iniziale in pazienti che desiderino evitare gli effetti collaterali della deprivazione androgenica. Inoltre, alcune alterazioni genomiche sembrano avere un valore prognostico in questo setting di pazienti, suggerendo l’importanza di valutare il ruolo dei biomarcatori nella selezione dei pazienti in studi futuri.


Matthew P. Deek , MD; Kim Van der Eecken, MD, PhD; Philip Sutera , MD; Rebecca A. Deek, MS; Valérie Fonteyne, MD, PhD; Adrianna A. Mendes, MD; Karel Decaestecker, MD, PhD; Ana Ponce Kiess, MD, PhD; Nicolaas Lumen, MD, PhD; Ryan Phillips , MD, PhD; Aurélie De Bruycker , MD; Mark Mishra, MD; Zaker Rana , MD; Jason Molitoris , MD, PhD; Bieke Lambert, MD; Louke Delrue, MD; Hailun Wang , PhD; Kathryn Lowe, BS; Sofie Verbeke , MD, PhD; Jo Van Dorpe , MD, PhD; Renée Bultijnck , PhD; Geert Villeirs , MD; Kathia De Man, MD; Filip Ameye, MD; Daniel Y. Song, MD; Theodore DeWeese, MD; Channing J. Paller , MD; Felix Y. Feng , MD; Alexander Wyatt, PhD; Kenneth J. Pienta , MD15; Maximillian Diehn , MD, PhD; Soren M. Bentzen , PhD, DMsc; Steven Joniau , MD, PhD; Friedl Vanhaverbeke, MD; Gert De Meerleer, MD23; Emmanuel S. Antonarakis , MD; Tamara L. Lotan, MD; Alejandro Berlin , MD; Shankar Siva , MD, PhD; Piet Ost , MD, PhD27; and Phuoc T. Tran , MD, PhD

Journal of Clinical Oncology

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