Notiziario AIOM

Il libro. “I SANITARI CAPACI DI REINVENTARE IL LORO RUOLO, MA ATTENZIONE ALLE FAKE NEWS”

Intervista a Alessandra Ferretti, giornalista scientifica

“SARS-CoV-2 imparare dal virus. Opportunità e criticità per l’oncologia di domani” (Aliberti e-stories) è il titolo del libro scritto dalla giornalista scientifica Alessandra Ferretti, che durante l’emergenza da Covid-19 è entrata in sei reparti di Oncologia medica e in uno di Ricerca Traslazionale di altrettanti ospedali del nostro Paese, per capire come questi abbiano affrontato la doppia sfida di proteggere i pazienti oncologici dall’infezione, garantendo loro contemporaneamente cure e trattamenti. Un capitolo è dedicato all’intervista al Presidente nazionale AIOM e Responsabile Oncologia Medica Humanitas Gavazzeni di Bergamo, Giordano Beretta. Oltre al Presidente Beretta, compaiono altri 6 Direttori di Oncologia e Ricerca Traslazionale durante il Covid-19: Carmine Pinto (Santa Maria Nuova Reggio Emilia), Paolo Pedrazzoli (San Matteo Pavia), Filippo De Braud (Istituto Tumori Milano), Vittorina Zagonel (IOV Padova), Giampaolo Tortora (Gemelli Roma) e Nicola Normanno (Istituto Tumori Napoli).

Dott.ssa Ferretti, nel suo libro lei evidenzia come, in Italia, gli ospedali siano riusciti a governare l’emergenza e i reparti di oncologia a garantire le cure ai pazienti. L’emergenza causata dal Covid-19, però, ha messo in luce tutte le criticità che il Servizio Sanitario Nazionale e la politica non potranno più ignorare. Quali sono queste lacune da colmare?

L’emergenza Covid-19 ha fatto da catalizzatore a tutte le principali problematiche insite nel nostro sistema sanitario, che in gran parte già conoscevamo e che ora dobbiamo in qualche modo risolvere.

Una di queste è il territorio, che durante la crisi ha mostrato di mancare di una strategia lucida e di un coordinamento omogeneo, forse anche per l’assenza a monte di risorse adeguate. Una realtà, questa, che si ripercuoteva quotidianamente già su situazioni non di emergenza, vedi, ad esempio, i problemi correlati agli anziani e alle RSA, la gestione di dimissioni da ricoveri ospedalieri bisognosi di assistenza domiciliare o i nuovi bisogni dovuti all’aumento delle patologie croniche. Oggi diventa urgente creare una continuità tra ospedale e territorio, che non possono più restare due entità svincolate tra di loro.

In secondo luogo, l’emergenza Covid-19 se, da un lato, ha mostrato come il paese sia in possesso di elevate potenzialità professionali, culturali e strutturali, ha messo anche in luce, dall’altro lato, come ci sia urgente bisogno di un coordinamento centralizzato di queste capacità. Tradotto nella pratica, di un indirizzo centrale forte da parte del Ministero della Salute e dei suoi organismi quali l’Istituto Superiore di Sanità, l’Agenzia Italiana del Farmaco, l’Agenzia Nazionale per i Servizi Sanitari Regionali in condivisione con gli organismi regionali. In una parola, si tratta di mettere in piedi una strategia unitaria e una definizione chiara delle competenze.

Ancora, non è più pensabile proseguire con la dicotomia tra cura della salute e salute pubblica. Già la mobilitazione contro HIV e AIDS alla fine degli anni ’70 in California e nella città di New York aveva dimostrato come la strategia vincente fosse quella di giocare sul mix tra terapie antivirali, da una parte, e impegno della salute pubblica verso la diffusione di pratiche di prevenzione, dall’altra. Oggi queste due armi a nostra disposizione, quando possibile, vanno utilizzate sempre insieme, lungi dal considerare i modelli biologico e sociale della malattia come universi paralleli.

Per far fronte a tutto questo, ci sarà bisogno di ulteriori e più congrui investimenti in sanità e in ricerca. Non è una novità il fatto che il nostro sistema nazionale sia, rispetto a tutto il mondo occidentale, quello con la più bassa percentuale di finanziamento pubblico rispetto al Pil.

Quando tutte queste condizioni negative perpetrate nel tempo rischiano, come in questo caso, di riflettersi negativamente sull’assistenza e sulla cura di pazienti cronici o acuti, allora non sono più accettabili.

Nel libro, lei parla di “obsolescenza di un certo fordismo sanitario”. Cosa significa?

Il modello di sanità prestazionale che si è affermato in questi anni ha in qualche modo plasmato il proprio fruitore, concentrato sul proprio bisogno di essere visto il prima possibile dal migliore degli specialisti possibili al prezzo più ragionevole possibile, in una sorta di approccio consumistico alla propria salute. Ebbene, il Covid-19 ci ha insegnato l’importanza di razionalizzare e ottimizzare il nostro sistema assistenziale. Se l’esperienza del SARS-CoV-2 servirà ad evitare passaggi non del tutto necessari ed esami strumentali di troppo, forse il sistema nel suo complesso potrebbe funzionare meglio e il cittadino potrebbe venire man mano progressivamente anche (ri-)educato nella sua funzione di utente, con vantaggi per entrambe le parti.

Qual è l’aspetto che l’ha colpita di più in queste interviste?

A livello gestionale, mi ha colpito la capacità dei sanitari di reagire, “reinventare” il proprio ruolo e riconvertire tutti i mezzi a disposizione nel pieno della crisi. Mai come in questi mesi i professionisti hanno dovuto mettere insieme tutto il proprio know-how tra colleghi anche di diverse specialità, unendo conoscenze, competenze, ma anche intuizioni e impressioni. L’ammissione di trovarsi tutti quanti “un po’ meno competenti” del solito, fare sforzi ulteriori per trovare soluzioni efficaci e condivise sono state la forza della reazione e il motivo della sua buona riuscita.

A livello di clinica, fa riflettere la differenza emersa dal confronto tra il caso italiano e le esperienze riferite da alcuni report cinesi. Diversi studi hanno infatti dimostrato come in Cina i pazienti oncologici abbiano avuto enormi problemi. Da noi, invece, almeno da questo punto di vista, sembra che le cose siano andate meglio. Al di là delle differenze genetiche, la sensazione è che riusciamo a curare bene questi pazienti (vedi già letteratura di qualche anno fa sui pazienti italiani affetti da tumore del rene, che a parità di patologie, stadio e tipo di trattamento, sopravviverebbero più a lungo di quelli trattati negli altri paesi). È possibile che su tutto questo influisca qualche elemento genetico che ancora non è stato identificato oppure che a monte sia stata azzeccata qualche intuizione che abbia portato a gestire le patologie oncologiche meglio di altre. Questo elemento sarà molto interessante da studiare nel prossimo futuro.

Quali sono le “buone pratiche” adottate in oncologia durante la fase acuta dell’emergenza e che dovrebbero essere seguite anche nella fase 3?

Sicuramente da questa esperienza si è imparato molto. Se non altro, perché l’emergenza ha costretto il sistema – nella fattispecie le singole aziende sanitarie e, al loro interno, i singoli reparti – in parte a riorganizzarsi, seguendo anche soltanto il buon senso e le intuizioni condivise. Tra le pratiche che sono risultate vincenti e che potranno essere mantenute – previo placet dei decisori politici –, sono senza dubbio una programmazione dei trattamenti più diluita nel tempo laddove possibile, l’utilizzo degli strumenti di telemedicina (nelle sue forme di teleconsulto, telemonitoraggio e via dicendo) mirati a snellire il sistema, un contingentamento degli accessi che rende più fluido il lavoro dei sanitari e servizi di consegna domiciliare dei farmaci.

A livello globale è tornata ad imporsi la necessità di collaborare sia sul fronte del controllo e della sorveglianza delle infezioni, sia su quello della condivisione dei risultati della ricerca, perché quasi sempre la scoperta e lo sviluppo di farmaci e vaccini sono frutto della somma di contributi di più scienziati e più laboratori sparsi per il mondo, tra alti e bassi, successi e insuccessi.

Poi, però, sussistono anche punti interrogativi. Per quanto riguarda la società, ci chiediamo se questa esperienza sia stata così impattante da lasciare strascichi positivi anche sulle masse, ad esempio, dal punto di vista dell’accettazione dei vaccini (il fatto che la sconfitta del temibile Sars-CoV-2 possa dipendere da un vaccino potrebbe avere sensibilizzato fette della società prima scettiche o contrarie sul tema) o delle pratiche di prevenzione (che sono ancora l’unico mezzo in nostro possesso per contribuire in parte a contrastare l’insorgenza di tumori).

Non ultimo, la comunicazione. Le difficoltà di tempo e di modalità della comunicazione tra medico e paziente Covid, da un lato, e il cambiamento di prassi della stessa tra medico e paziente oncologico, dall’altro, hanno conferito al tema ulteriore visibilità. Nell’emergenza è venuta improvvisamente a scomparire l’asimmetria tipica tra medici e pazienti, dal momento che anche i primi correvano lo stesso rischio di ammalarsi dei secondi. Tale consapevolezza, reciprocamente condivisa, ha aiutato entrambe le figure a stabilire un diverso contatto umano che prima per prassi non si verificava.

Com’è cambiata la comunicazione medico-scientifica durante la pandemia? I social rischiano di oscurare il reale valore delle fonti?

Il Policy Research Programme Reviews del National Institute for Health Research ha analizzato gli articoli pubblicati su riviste scientifiche in tema SARS-CoV-2 e Covid-19 dall’inizio della pandemia. È emerso che gli articoli in forma di commento e analisi qualitativa hanno superato di gran lunga il numero dei report quantitativi che avevano superato lo step di peer review. Da quando l’epidemia è arrivata all’opinione pubblica, ovvero da gennaio 2020, le analisi pubblicate nel circuito delle riviste scientifiche è stato, in media, di 50 articoli al giorno. E gli articoli non quantitativi ovvero di commento, intervento o riflessione hanno toccato il 63% del totale, una percentuale che non è affatto diminuita nel corso dei mesi.

I social network (che vanno distinti dall’informazione online ad opera di giornalisti professionisti) oscurano il reale valore delle fonti nel momento in cui operano come cassa di risonanza di informazioni verosimili o addirittura false. In questo contesto la stessa informazione a monte non ha aiutato. Nell’abbondanza di riflessioni e informazioni (qualitative, appunto, e per certi versi soggette a interpretazione e/o manipolazione) e, ancora di più, nell’evidente disaccordo di certe dichiarazioni pubbliche esternate da esperti e scienziati soprattutto all’inizio della diffusione della pandemia (ma non solo), il gioco dei social network è stato ampiamente alimentato. Tanto da produrre, purtroppo, come si è verificato, vere e proprie fake news, che hanno imperversato persino sui sistemi di messaggistica telefonica e che hanno trovato terreno fertile nell’incertezza e nella confusione di un’opinione pubblica spaesata e colta di sorpresa.